Rivolgersi a una struttura sanitaria pubblica per prenotare una visita specialistica o sottoporsi a un intervento chirurgico programmato può richiedere mesi e, in molti casi, la stessa struttura diventa quasi inaccessibile costringendo il cittadino a prolungare l’attesa e aumentando il rischio di ritardare la diagnosi o aggravare la malattia.
È innegabile che quello legato alle liste di attesa sia diventato il vero problema della sanità italiana e il Covid non ha fatto altro che accentuarlo; ciononostante, fino ad oggi non abbiamo avuto alcuna riforma di sistema e tanto meno un vero investimento strutturale.
Una prima importante “chiave di lettura” della situazione consiste nell’analizzare la dinamica che regolamenta il rapporto tra offerta e domanda di salute. In sanità è l’offerta che genera la domanda. Questo vuol dire che, se l’offerta sanitaria è particolarmente bassa, i bisogni di salute espressi rischiano di rimanere inevasi e i pazienti non hanno accesso alle cure; al tempo stesso la bassa offerta non fa emergere i bisogni inespressi, ovvero quelle patologie silenti, non ancora diagnosticate che, alla lunga, porteranno a un aumento delle cronicità e dei costi per il Ssn.
Negli ultimi anni i tagli lineari hanno portato alla perdita di 38.648 posti letto e alla riduzione di 2,6 milioni di ricoveri, 68 milioni visite specialistiche, 18 milioni di prestazioni radiologiche e 197 milioni di indagini di laboratorio. Da oltre 20 anni esiste un blocco del tetto di spesa sul personale che ha ridotto drasticamente quella popolazione medica trovatasi in piena “gobba” pensionistica senza alcun rinnovo generazionale. Da qui il ricorso ai medici stranieri e ai cosiddetti “gettonisti”.
Intanto, oggi, sono oltre 2,18 milioni le famiglie italiane che vivono in assoluta povertà, per un totale di circa 5,6 milioni di individui, e 25,2 milioni coloro che spendono circa 1.500 euro l’anno per curarsi, generando una spesa “out of pocket” di 40 miliardi. Questi dati indicano che gli attuali Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono del tutto insufficienti e, quindi, che occorre rilanciare l’offerta sanitaria attraverso il potenziamento di quella prevenzione secondaria e terziaria che assicura più diagnosi precoci e più cure tempestive ma che nel concreto è ostacolata dalla scarsità di risorse umane e dall’insufficiente rete di ambulatori e posti letto ospedalieri.
Negli ultimi anni i tagli lineari hanno portato alla perdita di 38.648 posti letto e alla riduzione di 2,6 milioni di ricoveri, 68 milioni visite specialistiche e 18 milioni di prestazioni radiologiche
In questa ottica il recente Decreto legge sulla riduzione dei tempi di attesa delle prestazioni sanitarie (D.L. n. 73/2024) non appare rispondente alle reali esigenze perché, al di là dei finanziamenti, in gran parte rinviati a un ulteriore Disegno di legge, sono previsti interventi che non riescono ad “aggredire” le vere cause. Certo appare utile la creazione di una piattaforma nazionale delle liste di attesa regolamentata da linee guida prodotte da Agenas, ma è improbabile poter eseguire prestazioni specialistiche il sabato e la domenica prolungando le fasce orarie se mancano medici e infermieri. Oggi i turni di servizio festivi e notturni sono assicurati esclusivamente dal lavoro aggiuntivo dei sanitari e la volontà di defiscalizzare le prestazioni o incrementare la tariffa oraria non risolve il problema. Alla fine, si costringe sempre gli stessi professionisti a lavorare ancora di più rinunciando alla propria vita sociale e familiare.
In sintesi: si utilizzano le stesse strutture e gli stessi professionisti facendo ricorso a incentivi temporali, ma non si tiene conto che i sanitari dipendenti del Ssn sono pochi, anziani, stanchi e demotivati.
Un recente sondaggio sul medico ospedaliero, condotto dalla nostra Federazione Cimo-Fesmed, ha evidenziato che il 72% dei dottori vorrebbe lasciare l’ospedale pubblico; il 73% è costretto agli straordinari; il 42% ha accumulato oltre 50 giorni di ferie; per il 30% la qualità della vita privata è insufficiente o pessima.
L’“attaccamento al camice” non è messo in discussione ma, dal contesto sociale alle retribuzioni, dall’organizzazione aziendale alle aspettative di carriera, dal carico di lavoro alle responsabilità, fino al contenzioso, emerge chiaramente che i medici dipendenti sono portati sempre di più a cercare nuove opportunità lavorative e tanto lo si deve anche alla smisurata quantità di tempo dedicata agli atti amministrativi che, di fatto, è sottratta all’assistenza.
Il ricorso ai medici a gettone o alle prestazioni aggiuntive ha cambiato profondamente il mercato del lavoro favorendo la fuga dei dottori dal Servizio sanitario pubblico; ma ciò che veramente emerge è la percezione dei giovani medici verso il lavoro dipendente. Il nostro sondaggio rileva la delusione dei dottori nelle loro aspettative professionali (89%), di carriera (97%) e di retribuzione (98%) e non è un caso che sono sempre meno gli specializzandi che frequentano le scuole di medicina di urgenza, rianimazione o persino le chirurgie.
Questi aspetti della vita professionale del medico sono decisivi e non possono essere sottovalutati rispetto a un contesto sanitario che non sempre assicura l’accesso alle cure a tutti i cittadini. Abbiamo bisogno di medici preparati e motivati, soprattutto sereni nel curare i propri pazienti.
Il problema, quindi, non è l’attuale carenza di medici, frutto di una gobba pensionistica oramai in via di esaurimento, quanto la qualità e la sicurezza del lavoro, il recupero di una vita familiare e sociale, la difesa dalle aggressioni o dal contenzioso medico-legale.
Stupisce pertanto che si continui a bloccare il tetto di spesa sul personale sanitario mentre si apre a 70 mila neodiplomati un accesso a medicina che rischia di generare un’altra bolla. L’ampliamento non può che prevedere un inizio di formazione a distanza, data l’insufficienza di aule e spazi universitari, e un successivo sbarramento per 50 mila aspiranti medici che non potranno essere assorbiti. Mirare al raddoppiamento del numero dei laureati attuali (nei 6 anni di studi previsti, parliamo di circa 120 mila nuovi camici bianchi), andrebbe soltanto a riprodurre quella “pletora medica” che tanti guai ha generato dagli anni ’70. Spostando ancora una volta il problema, senza risolverlo.