«Poche righe sulle tensioni tra Russia e Ucraina e pagine e pagine sulla gender parity: una sensibilità da turisti della storia». Lo sferzante giudizio di Giulio Tremonti, già ministro dell’Economia e senza dubbio analista acuto dei megatrend contemporanei, sintetizza icasticamente l’incredibile sequela di leggerezze e sottovalutazioni all’ombra delle quali il progetto egemonico e aggressivo di Vladimir Putin ha potuto covare per anni aspettando il momento secondo lui migliore per sferrare l’attacco.
Una sequenza di errori dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del G7 e della Nato che non va trascurata oggi – pur nel momento in cui l’emergenza bellica chiama tutti ad ogni declinazione possibile dell’inderogabile solidarietà con la nazione attaccata – per porre tempestivamente le premesse per costruire poi un futuro sostenibile e pacifico; premesse tra le quali, per esempio, non può rientrare l’inclusione a pari titolo di Erdogan tra le “forze del bene” espresse dal “mondo libero”.
Anche perché l’impatto dell’attuale crisi sull’economia dell’Occidente è appena iniziato. Tanto c’è da fare per ricostruire, quando le armi taceranno: il che purtroppo, al momento, in cui queste righe vengono scritte, è ancora una speranza ma non una previsione con data certa. Sta di fatto che però, ad oggi, le contromisure di politica economica europea per mitigare in modo significativo l’impatto economico della crisi bellica si limitano a pallide dichiarazioni d’intenti.
Le contromisure di politica economica europea per mitigare in modo significativo l’impatto economico della crisi bellica, ad oggi, si limitano a pallide dichiarazioni d’intenti
All’emergenza sanitaria, che purtroppo non è prudente considerare superata perché non lo è la pandemia, si affianca una crisi energetica iniziata – ricordiamocelo! – prima della guerra e da essa accentuata. Il futuro a breve-medio termine dell’Occidente presupponeva, anche nei progetti connessi al Recovery plan, la stabilità delle forniture di gas russo, tanto che la Commissione europea aveva incluso quattro mesi fa nella “tassonomia” energetica compatibile con gli obiettivi del 2030 e del 2050 anche il gas, oltre che il nucleare sicuro.
Ora è evidente che questa stabilità non ci sarà per molto tempo. Le prospettive di conclusione della guerra sono evidentemente solo due: una vittoria almeno parziale di Putin, che includerà nei trattati una riduzione delle sanzioni, non una loro eliminazione: e dunque nulla ci garantisce che le forniture di gas potranno in questo caso riprendere (o meglio: proseguire, giacché per ora non sono state interrotte!) o normalizzarsi quanto ai prezzi; oppure una sconfitta di Putin, con il conseguente auspicabile rovesciamento del suo regime, cui seguirebbe però l’apertura di una fase d’incertezza durante e dopo la quale nulla e nessuno può assicurare l’Occidente di un ripristino rapido delle forniture energetiche e dei loro prezzi.
E dunque? Dunque la fortissima pressione economica ed emotiva che sta inducendo tutti i Paesi europei e l’Unione a invocare una netta spinta all’autosufficienza energetica continuerà: ma dovrà essere finanziata e non certo dai magri budget nazionali, già provati dalla pandemia e dalle spese assistenziali straordinarie connesse. Il tutto, in un clima di velleitaria transizione energetica, che qualsiasi indagine a fine 2021 denunciava come largamente lacunosa per non dire assente, intralciata com’è dalla mancanza di infrastrutture e dalle norme antidiluviane.
Si pensi all’Italia: è un Paese con appena tre rigassificatori perché il quarto, a Brindisi, che pure aveva all’attivo l’ok del contratto di programma e il finanziatore nel colosso britannico Bp, è stato affossato dai veti insensati degli ambientalisti locali; e c’è mancato un niente che gli stessi veti affossassero pure il Tap, il metanodotto che approdando in Puglia ha aperto per lo meno un altro canale di rifornimento di gas per il nostro Paese. Però attenzione: anche se ci fossero rigassificatori a sufficienza, è chiaro a tutti che rigassificare il gas liquefatto è l’ultimo anello di una catena molto dispendiosa, che certo non concorre a calmierare i prezzi.
È insomma pensabile che il caro energia si riduca? Sperabile, ma non a breve: le stesse rinnovabili, su cui l’Italia molto ha fatto ma più che altrettanto dovrebbe fare, richiedono enormi investimenti e soprattutto una burocrazia snella di cui non si vede alcun prodromo.
Soldi, servono tanti tanti soldi: ma non è affatto sicuro che l’Unione europea saprà metterne a disposizione abbastanza, come in fondo per la prima volta nella sua storia ha fatto per il Covid-19.
Perché? Per una ragione assai semplice: perché uno dei due Paesi chiave per il potere comunitario, cioè la Francia, grazie alla sua lungimirante politica energetica, non dipende affatto dal gas russo e attutisce con grande facilità i picchi di rincaro delle fonti energetiche grazie alla fortissima autoproduzione nucleare che ha.
La Francia non dipende affatto dal gas russo e attutisce con grande facilità i picchi di rincaro delle fonti energetiche grazie alla fortissima autoproduzione nucleare che ha
Il nostro Premier Mario Draghi è stato chiaro, parlando di “2 o 3 miliardi di euro” come plafond europeo per fronteggiare l’accelerazione della transizione ecologica in chiave di autonomia energetica e di prevenzione rafforzata del cambiamento climatico, ma anche per sostenere la corale decisione di riarmare i singoli Stati dell’Unione costituendo, più prima che poi, una forza militare unitaria europea. Saprà l’Unione mobilitarsi economicamente come e più di quanto ha fatto per il Covid, dopo nemmeno due anni dal primo “miracolo”?
Più luminosi i destini dell’altra transizione, quella digitale: la sua crucialità produttiva si conferma e si rafforza anche in chiave strategico-difensiva, visto come la cyberwar ha accompagnato queste settimane di guerra. Occorre digitalizzarsi, dunque, senza se e senza ma, non solo per recuperare produttività, efficienza e competitività, ma anche per prevenire gli attacchi hacker di tutti i malintenzionati del mondo.
Ma quali sono gli impatti di tutto questo sull’”azienda Italia” e sulla sua crescita? Pesanti, forse pesantissimi: inutile nascondercelo. Ad oggi, i calcoli del ministero dell’Economia hanno restituito una dinamica del Pil 2022 poco sopra il +3%; ma c’è ancora spazio per qualche revisione, purtroppo. E un economista prestigioso, acuto e solitamente tacciato, semmai, di ottimismo come Marco Fortis ha pronosticato che ci sarà da festeggiare se il Pil si attesterà all’1%.
All’attivo militano però due grandi speranze. La prima è che l’Europa, pur meno compatta che contro il Covid, trovi tuttavia al suo interno la spinta necessaria per varare un’altra importante operazione di sussidi all’economia, quella di cui ha parlato Draghi. L’altra speranza, per quanto triste da evocare, è che i sicuri, massicci investimenti pubblici negli armamenti, che sono già all’attenzione delle cancellerie di tutti gli Stati membri, riverberino sull’intero ciclo economico la forza propulsiva che avranno sul Pil.
La storia è cinica, ed insegna che le guerre hanno sempre dapprima e brevemente avvallato economia reale e mercati finanziari, e poi li hanno visti risorgere su basi e con forza superiori a quelle del precedente periodo di pace.