La Banca d’Italia, nella relazione annuale appena presentata, ha certificato la forza dell’export italiano. Persino dopo la paralisi del Covid, la nostra quota sul commercio mondiale dei beni è rimasta invariata. Un dato che racconta della resistenza competitiva delle nostre imprese: abbiamo presidiato a denti stretti le nostre posizioni, non abbiamo arretrato sul terreno conquistato, anche se i volumi totali si sono assottigliati per tutti.
Le aziende italiane che si fanno valere sui mercati internazionali sono la parte più forte e vitale della nostra struttura produttiva. Meritano quindi di essere raccontate. E non solo con dei numeri, con i dati dei fatturati e delle quote di mercato. Dietro ci sono persone con le loro vite private, progetti, idee, strategie di intrapresa: ci sono avventure e sfide, scommesse vinte e anche perse.
Non si tratta di fare del made in Italy un’epopea, ma di dargli corpo e anima. È l’intento con cui la Luiss university press ha inaugurato il progetto editoriale Bellissima, guidato dalla giornalista del Sole 24 ore Nicoletta Picchio, e per il quale ho scritto il mio libro, dedicato ai top manager del made in Italy: gli amministratori delegati. Gli uomini e le donne che hanno la responsabilità non solo di guidare le scelte strategiche che proiettano nel futuro quelle aziende, ma anche di preservarne la storia, i valori fondanti, la ricchezza di esperienze e di sapere che scorrono nell’organismo collettivo di chi ci lavora. “I Generalissimi”, nel titolo del libro.
Sono dieci storie, dieci best practice d’impresa, in settori e dimensioni diversi. Grandi aziende con capitalizzazioni record in Borsa e una platea ampia di azionisti che ne fanno quasi delle public company, come Enel ed Eni; campioni assoluti come Fincantieri che trasformano il patrimonio del settore navale in competenze da sfruttare nell’impiantistica civile. Ci sono casi esemplari di trasformazione di rendite di posizione qual è la rete di distribuzione del gas, in scommesse sfidanti nel campo energetico come sta facendo Snam. E ci sono testimonianze della migliore impresa di stampo familiare di cui l’Italia è ricca.
Molto prima del mito del garage che ha dato i natali alla Apple di Steve Jobs, sono gli esempi vitalissimi di un genio fiorito ora in un laboratorio di fortuna, ora in una cascina, condito di intuizioni, lavoro duro, imprevedibili opportunità. Marchi oggi rispettati a livello internazionale come la farmaceutica Chiesi specializzata in malattie rare, la chimica Coim impegnata nel salto in un “mondo senza la plastica”; la mitica Brembo dei freni della Formula1 alle prese con l’avvento dell’auto elettrica, il gruppo Calzedonia dalla presenza virale nelle main street di mezzo mondo.
Infine due aziende a guida femminile – purtroppo ancora troppo poche nel panorama nazionale – che esprimono al meglio quanto grande sia il potenziale dell’altra metà del cielo. Sono la Kiko che con il fast-makeup mangia quote di mercato a concorrenti blasonati, e uno dei nomi più rinomati del lusso tecnologico, i superyacht Bluemarine della Sanlorenzo.
Che tipo di leadership esprimono le donne e gli uomini alla guida di queste aziende? Quale cultura aziendale vogliono impersonare? E attraverso quale cammino, sogni ed esperienze sono arrivati ai posti di comando?
Indagando le vite private dei top manager – il sottotitolo del libro è “Strategie e segreti dei top manager del made in Italy” – si scoprono delle ambizioni, ma anche mille impreviste porte girevoli. C’è chi allenava una squadra di pallavolo, chi voleva fare il medico, chi ha trovato la sua strada grazie a una fidanzata molto determinata. Chi scrive poesie e chi si è ispirato alle favole. Chi ha assunto l’incarico come una penitenza transitoria e non se n’è più andato. Chi ha trasformato il ruolo del predestinato in vocazione.
Non viviamo in un clima facile per i leader. Lo spirito del tempo riconosce con fatica l’autorevolezza, stenta a dare fiducia, è incline piuttosto allo scetticismo e alla critica. Anche se da noi non ci sono stati gli scandali clamorosi del capitalismo anglo-sassone, dalle super-paghe al movimento “me-too”, l’organismo impresa è percorso da nuove inquietudini con l’arrivo della rivoluzione digitale e dei robot che spiazzano il lavoro; la ricerca del consenso, anche al vertice, deve fare i conti con l’uso dei social media, che introduce una nuova etichetta all’interno dei luoghi di lavoro, dissolve la deferenza alla Fantozzi ed esige più trasparenza tra i livelli gerarchici.
Non è un clima facile neanche per l’impresa, oggetto di “body-shame” se produce solo ricchezza per sé, unico criterio una volta per renderla rispettabile agli occhi del mondo, e oggi impegnata a darsi il ruolo diverso in nome della responsabilità sociale e dei criteri Esg. E con il capitalismo che cambia paradigma, anche la credibilità dei manager deve spostarsi dal piano della performance a quello dei valori etici e ambientali.
Con il capitalismo che cambia paradigma, anche la credibilità dei manager si sposta dal piano della performance a quello dei valori etici e ambientali
Le storie che racconto nel libro tutte queste sfide le hanno ben presenti, anzi le hanno già raccolte. Dimostrano che il capitalismo all’italiana è perfettamente inserito nelle grandi catene del valore, intrepido sui mercati internazionali e guidato da manager aperti al nuovo “umanesimo” che percorre la società.