Esaurire il tema delle politiche energetiche nello spazio di un articolo è impossibile, ma può essere certamente utile definirne meglio alcuni perimetri concettuali, contribuendo a chiarire una terminologia che troppo spesso, per abuso, perde di significato.
Parto dalla parola “transizione”, energetica ma in primis ecologica.
La transizione ecologica è un concetto che ha radici lontane, i cui prodromi sono riconducibili alla metà del secolo scorso. Il primo rapporto sullo stato dell’ambiente e del mondo è datato 1951, a firma dell’Unione internazionale per la conservazione della natura: si affaccia la relazione tra attività antropiche e impatto ambientale e si avvia uno spazio di riflessione non ancora risolto.
A seguire, I limiti dello sviluppo (Club di Roma, 1972) e il Rapporto Burtland (1987) segnano tappe fondamentali per la definizione del concetto di sviluppo sostenibile e la conseguente necessità di una “transizione”. Ma evidenziano un’altra faccia della medaglia, quella dei “bisogni”. È bene ricordare la cosiddetta “identità di Kaya”, che identifica l’aumento del tasso di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre con una semplice relazione tra quattro fattori: emissioni di carbonio per unità di energia consumata; energia consumata per unità di Pil; Pil pro capite; popolazione.
Detto altrimenti: aumento delle emissioni come diretta conseguenza dell’aumento del Pil mondiale e della popolazione, mitigazione dell’aumento grazie all’incremento di efficienza energetica e alla riduzione del contenuto di carbonio per unità di energia. Sappiamo che negli ultimi 60 anni il fabbisogno di energia è aumentato di almeno 10 volte, il Gdp di 20 volte, la popolazione mondiale si è quintuplicata. Nello stesso periodo, la quota di energia disponibile da fonte fossile è diminuita solo del 10% e non si sono verificati aumenti di efficientamento tali da bilanciare la relazione.
Negli ultimi 60 anni il fabbisogno di energia è aumentato di almeno 10 volte, il Gdp di 20, la popolazione mondiale è quintuplicata
Qual è la possibile causa di questo squilibrio?
Non si è verificata alcuna transizione tecnologica, fatta forse salva l’eccezione dell’utilizzo del petrolio per rispondere a una crescente richiesta di mobilità individuale. Non si sono disvelate nuove tecnologie dirompenti, ma timidi miglioramenti incrementali. Anche l’idrogeno, oggi uno dei potenziali protagonisti della decarbonizzazione dei sistemi energetici – che per inciso ricordo essere un vettore energetico, non una fonte di energia – non rappresenta un cambiamento di paradigma nonostante Jules Verne, già nel 1864, scrivesse: l’acqua è il carbone dell’avvenire.
Forse la fusione nucleare, tra 50 anni, potrebbe rappresentare l’inizio di una vera transizione tecnologica. Com’è noto la fusione oggi è economicamente insostenibile poiché la produzione di energia è significativamente inferiore alla domanda di energia necessaria per sostenere il processo stesso. È però una via tecnologicamente percorribile, e gli sforzi industriali e finanziari dovrebbero sempre più orientarsi in questa direzione, superando resistenze, per così dire, politiche.
Qui si affaccia un altro doveroso chiarimento terminologico, quello di sviluppo sostenibile.
La sostenibilità deriva dal campo delle scienze naturali: non riguarda le risorse esauribili, quanto la capacità di rinnovamento di una risorsa, come può essere lo stock di pesce pescato o la gestione attiva di una foresta.
La sostenibilità è un fatto eminentemente politico, non tecnologico o ingegneristico. È un modo di guardare le cose, di essere come individui, imprese, nazioni. E la politica – le politiche energetiche – è la dorsale necessaria per orientare a livello globale la riduzione di emissioni di gas climalteranti.
Oggi i segnali di una reale convergenza politica planetaria sulla mitigazione del cambiamento climatico sono discordanti, oltre il velo delle buone intenzioni. Ricordo, ad esempio, l’ultima conferenza mondiale del clima di Madrid come un’occasione in parte mancata. Attendo la prossima Cop26 che si terrà tra qualche mese, dove dovranno essere finalmente rivelate le reali strategie dei governi mondiali per la riduzione delle emissioni globali in coerenza con l’Accordo di Parigi del 2015. Gli incontri recentemente promossi dagli Stati Uniti – ed i rinnovati limiti alle emissioni – rappresentano un ottimo punto da cui ripartire. Anche l’Unione europea, con l’European green deal, lancia un piano ambizioso per il clima e l’ambiente, finalizzato a raggiungere emissioni net-zero entro il 2050 per l’intero continente.
In questo contesto le imprese, e soprattutto i mercati, non stanno a guardare. I fattori di governance ambientale, sociale e aziendale (Esg) sono criteri di investimento non più “cosmetici”, ma dirimenti. Un’azienda che non vuole perdere competitività deve dare centralità strategica alla rendicontazione dei propri processi e prodotti in termini di emissioni, dirette o indirette.
I mercati apprezzano, o deprezzano, con sempre maggior attenzione ai criteri etici. E le imprese sono d’altra parte oggi protagoniste in una partita cruciale per la sfida della transizione energetica: quella dell’innovazione tecnologica. I dati del recente studio Istat Ricerca e sviluppo in Italia, anni 2018-2020 mostrano con evidenza il ruolo del privato. Dei 25,2 miliardi di euro spesi complessivamente in R&S in Italia nel 2018 la quota parte delle aziende è pari a 15,9 miliardi, il 63% del totale, corrispondente allo 0,9% del Pil. E ancora, il 2019 ha segnato un +1,9% di investimento per le imprese.
Allargando lo spettro, la Europe 2020 strategy presentata nel 2010 dalla Commissione europea auspicava un aumento degli investimenti nazionali in ricerca e sviluppo pari al 3% del Pil. L’Italia, nel documento poco sopra riportato, si è posta per il 2020 un obiettivo di spesa pari all’1,53% del Pil. Ecco, quindi, che il tema delle politiche energetiche torna al suo correlato di complessità: è politica, in senso stretto. È la responsabilità di fissare degli obiettivi e avere la forza per onorarli, senza esitare a sostenere chi – questi obiettivi – può contribuire a raggiungerli.
L’Italia si è posta per il 2020 un obiettivo di spesa in R&S pari all’1,53% del Pil. La raccomandazione europea è del 3%
Ma questa è un’altra storia, è un altro articolo.