Il secondo Paese manifatturiero d’Europa, l’Italia, nel 2019, prima della catastrofica pandemia, aveva un Pil che era ancora inferiore a quello del 2008, quando arrivò la pesante recessione causata dalla crisi finanziaria. Siamo l’unico Paese all’interno del G20 che si è impoverito e fra le varie cause, una delle più importanti è la deindustrializzazione a cui contribuisce, a sua volta, il prezzo alto dell’energia elettrica, una debolezza che da sempre caratterizza il nostro sistema energetico.
Le riforme verso le liberalizzazioni e privatizzazioni avviate alla fine degli anni ’90 non hanno risolto il problema, mentre la prossima rivoluzione energetica annunciata per salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale, rischia di peggiorarlo. Attualmente i prezzi dell’elettricità in Italia, per le imprese più rappresentative, oscillano fra i 15 e i 18 centesimi di euro per chilowattora, valori fra i più alti nell’Unione Europea, dove la media è di 12 centesimi. Siamo superati dal Regno Unito, dove i prezzi stanno salendo per un impegno molto spinto sulla transizione, ma il loro manifatturiero non conta molto.
I prezzi dell’elettricità in Italia oscillano fra i 15 e i 18 centesimi per kWh, valori fra i più alti nell’Unione europea, dove la media è di 12 centesimi
Più alti dei nostri prezzi sono quelli della Germania dove alla grande industria sono state da tempo ridotte alcune componenti delle bollette, quelle relative agli incentivi alle fonti rinnovabili. In Germania, la grande industria ha un ruolo maggiore nella struttura economica, a differenza di quanto accade in Italia dove, invece, conta molto la piccola e media.
In ritardo, da noi è stato fatto lo stesso per i grandi consumatori, ma gli altri più piccoli continuano a pagare prezzi molto alti. Altrettanto importante è il fatto che in Germania l’economia negli ultimi quindici anni è cresciuta in maniera sostenuta, il contrario di quello che è accaduto da noi dove anche il sistema produttivo fa più fatica e sente di più il caro bollette.
Nel 2021 la rivoluzione energetica attesa al 2030 poggia su un forte incremento delle fonti rinnovabili, eolico e solare fotovoltaico, i cui costi alla produzione sono crollati, ma che comportano difficoltà tecniche dovute alla loro intermittenza, perché funzionano solo quando c’è il vento e quanto splende il sole. Per ovviare a ciò, serve tenere accese centrali tradizionali, di solito a gas naturale, pronte per partire non appena cala la produzione da rinnovabili.
Questi impianti, perché siano disponibili, occorre pagarli attraverso meccanismi come il mercato dei servizi, o quello della capacità, tutti dispositivi che stanno spingendo sui prezzi dell’elettricità. Inoltre, servirebbero enormi accumuli dove stoccare l’energia elettrica. Le batterie di grandi dimensioni, con la stessa tecnologia dei nostri telefonini, non sono ancora disponibili, mentre si potrebbe ricorrere a laghi artificiali dove pompare l’acqua nei momenti di abbondanza per poi lasciarla cadere, e produrre elettricità, quando serve. Ma anche queste soluzioni sono costose, si devono scaricare sulle tariffe e nessuno le vuole sui territori.
L’Europa vuole guidare la transizione energetica ma, come l’esperienza italiana purtroppo dimostra, è un pasto tutt’altro che gratis e a pagare il conto più salato sono le imprese.