Tutti pazzi per lo smart working

Un retaggio culturale che ci lega alla “scrivania” come elemento di stabilità e sicurezza ha impedito la diffusione dello smart working. L’emergenza coronavirus ha rotto gli schemi

È da tempo che Federmanager promuove soluzioni di lavoro che oggi preferiamo definire “innovation work” attraverso iniziative, studi, ricerche, documenti e soprattutto progetti. Partecipando ad audizioni parlamentari e presentando proposte operative, abbiamo contribuito al varo della legge 81 del marzo 2017, con la quale sono state introdotte una serie di norme che, dopo un decennio di assoluta improvvisazione, hanno definito un quadro legislativo di riferimento, in materia di lavoro “agile”, applicabile sia al mondo del privato sia a quello della pubblica amministrazione.

Poteva essere questa legge sufficiente a sbloccare un ritardo nell’applicazione di modalità di lavoro innovative che ci vede collocati all’ultimo posto nella graduatoria dei paesi europei?

Evidentemente no, se consideriamo che ancora oggi, trovandoci nel mezzo di una situazione di emergenza sanitaria che ha coinvolto i paesi di tutto il mondo, l’Italia presenta percentuali di utilizzo di modalità di lavoro innovative che non superano il 4% dell’intera popolazione lavorativa rispetto a una media europea di oltre il 10% con punte del 22.

Da noi il 4% della popolazione lavora a distanza, contro una media europea di oltre il 10% con punte del 22%

E allora la risposta che ci viene da dare è che più che un ritardo nell’uso di tecnologie abilitanti – elemento comunque non trascurabile se consideriamo che il nostro tessuto produttivo formato prevalentemente da piccole e medie imprese si è dimostrato abbastanza refrattario a iniziative di innovazione di processo pur in presenza di opportunità offerte dal piano Impresa 4.0 – l’enorme rallentamento nell’applicazione dello smart working è da attribuirsi ad un retaggio culturale che ci lega alla “scrivania” come elemento di stabilità e sicurezza.

Ricordiamo il provvedimento del ministro Madia che, timidamente, introdusse l’avvio di fasi sperimentali di lavoro agile nell’ambito della pubblica amministrazione al fine di ottenere il coinvolgimento di una quota del 10% dei dipendenti pubblici, oggi siamo intorno all’1,5%. E ancora, il ministro Bongiorno che provò a introdurre l’uso del controllo delle presenze del personale attraverso strumenti digitali, come se la presenza certificata potesse essere garanzia di rendimento.

Insomma rimane l’approccio culturale secondo cui è la presenza fisica a garantire il risultato delle regole e non già la qualità della prestazione.

L’emergenza coronavirus ha rotto uno schema che rappresentava un ostacolo notevole all’applicazione di modalità di smart working, quello cioè determinato dalla volontarietà del dipendente nell’accettare una forma diversa di lavoro rispetto a quella tradizionale. Scrivevo in un mio articolo del giugno 2015 dal titolo “Una partenza con il freno a mano tirato” che una delle possibili soluzioni al problema del ritardo nell’uso di modalità innovative di lavoro fosse quello dell’eliminazione dei criteri di volontarietà previsti dalle vigenti norme.

Sostenevo, in sostanza, che lo smart working dovesse essere considerato alla stessa stregua del lavoro tradizionale e quindi adottabile, senza differenziazioni, in ragione delle specifiche esigenze organizzative e produttive.

Peccato esserci arrivati dopo cinque anni per cause non riconducibili a un naturale progresso economico e sociale.

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