Come si formano i manager cinesi

Tra colossi di stato e scuole private, all’ombra della Grande Muraglia si prepara la prossima generazione di business leader. Sempre più globali. Sempre più interculturali

Narra la leggenda che il carismatico e visionario Jack Ma, fondatore di Alibaba, all’inizio della sua carriera abbia visto le proprie candidature respinte per ben trenta volte prima di creare un vero e proprio impero, anticipando il trend dell’e-commerce come stile di vita.

Quando il 21 febbraio 1999, in un modesto appartamento di Lakeside Gardens, un sobborgo di Hangzhou, Ma Yun – questo il suo nome cinese – raduna gli ex compagni di università per illustrare il suo progetto basato sul commercio online, la Cina può contare su un tasso di penetrazione di internet pari all’1% della popolazione. Inoltre, nel Paese non ci sono carte di credito e la logistica è ancora inesistente. La vicenda di Jack Ma insegna che nella Cina contemporanea essere visionari è un impulso necessario. Al contrario, essere attendisti può significare rimanere fuori dai giochi.

Se si guarda al background formativo dei leader cinesi di oggi, tuttavia, ci si rende subito conto che i tempi di Jack Ma sembrano già lontanissimi. Basti pensare che la sua formazione prevede una laurea in inglese al Hangzhou Teacher’s Institute, e non un MBA o una laurea in economia come si potrebbe immaginare. Nella Cina del 2019 le preferenze verso le business school sono invece in costante crescita. Innanzitutto perché il livello è cresciuto in modo importante, in secondo luogo perché consentono di creare il proprio network, quella rete di relazioni amicali e professionali che in Cina si definisce “guanxi” e che costituisce il tessuto sociale all’interno del quale è indispensabile muoversi per realizzare qualsiasi iniziativa di business. Scuole come la CKGSB (Cheung Kong Graduate School of Business), la CEIBS (China Europe Business School), la Peking o la Tsinghua University, per citare alcune tra le più celebri, prevedono programmi caratterizzati da un’impostazione sempre più globale e correlata a quello che accade nel mondo. In quelle caratterizzate da una maggiore spinta all’internazionalizzazione, si registra anche una crescente attenzione verso la necessità di governare le dinamiche interculturali, che trova riscontro nell’attivazione di programmi di intercultural management pensati per sostenere i manager europei impegnati in progetti in Cina. Insomma, le soft skills si fanno strada anche in un contesto formativo come quello cinese, tradizionalmente caratterizzato da un approccio storicamente votato soprattutto a tecnologia e processi industriali.

Le business school sono in costante crescita: consentono di creare un network, il cosiddetto “guanxi”,  indispensabile per realizzare qualsiasi iniziativa di affari

Prendiamo a titolo d’esempio la Cheung Kong Graduate School of Business (CKGSB), fondata nel 2002 dal miliardario Li Ka-Shing con la missione dichiarata di creare per il Paese e per il mondo la prossima generazione di “business leader”. Grazie a un paradigma di sviluppo manageriale innovativo, i programmi mirano a sintetizzare teorie che, pur essendo intimamente radicate nel più antico sistema valoriale cinese, spesso originando dai principi confuciani fondamentali, possano essere valide anche qualora applicate a livello globale. E i numeri sembrano confortare questa tesi. A dimostrazione di quanto i percorsi della CKGSB impattino sulla definizione di nuovi modelli di company culture cinese, influenzando positivamente la crescita economica del Paese, basti pensare che oggi la rete dei suoi 10 mila “alumni” è costituita da imprenditori i cui patrimoni, messi insieme, valgono il 14% del Pil cinese.

Se è pur vero che ciò non rappresenta una particolare singolarità, considerando che gli studi economici, di marketing, finanza, supply chain management, ingegneria gestionale e risorse umane sono da tempo affermati nelle università cinesi e godono di buoni posizionamenti nei ranking internazionali, tuttavia risultano piuttosto significative le strategie d’internazionalizzazione attuate negli ultimi anni da CKGSB, con l’apertura di un campus a Londra e il progetto di inaugurare nuove sedi in altre città europee per esportare la cultura d’impresa cinese in Occidente.

Allo stesso tempo, non è possibile ridurre a un quadro semplicistico l’analisi del background formativo dei leader cinesi di oggi. Non bisogna dimenticare l’importanza che nel Paese hanno avuto e continuano ad avere le SOEs (State Owned Enterprises) e per comprendere le caratteristiche di chi è alla guida di questi colossi di stato e la loro formazione, è utile ricordare la biografia dell’ex presidente di ChemChina Ren Jianxin, che può essere presa a modello per molte figure analoghe. Mr. Ren, dopo essere stato da giovane segretario della China Communist Youth League, nel 1984 con un prestito di 10 mila yuan (oggi circa 1.300 €) ha fondato la Bluestar Company, una fabbrica di solventi industriali, con sette impiegati.  Nel 1996 ha costruito l’impero di ChemChina assumendo il controllo di oltre 100 aziende in difficoltà finanziarie (cosiddette “zombie companies”) trovandosi a fronteggiare decine di migliaia di potenziali esuberi quando il suo modello manageriale, in sintonia con la visione del partito, prevedeva il massimo contenimento dei licenziamenti. Ecco il colpo di genio: la fondazione della catena “Malan Noodle”, dove riposizionare i lavoratori in eccesso. Nel 2004, alla luce del successo di queste operazioni, il Consiglio di stato approva la fusione all’interno di ChemChina di alcune SOEs controllate dal ministero dell’Industria chimica. Ren Jianxin è nominato presidente del primo gruppo industriale di stato cinese, che nel 2015 con un’operazione da 7.7 miliardi di euro, acquisisce il controllo di Pirelli. Ma questa, come si sa, è un’altra storia.

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