Misunderstandings in sanità

A fronte di un buon esito complessivo del Servizio sanitario nazionale si nota, per contro, un deficit di equità intra e infra regionale che persiste da 40 anni e ancora non si riesce a risolvere. Ecco i dati dell’ultimo rapporto CREA Sanità dell’università di Roma Tor Vergata

La riflessione sugli avvenimenti del 2018, focalizzata sulla ricerca della reale “cifra” delle politiche sanitarie, sembra potersi sintetizzare nell’affermazione di una persistente assenza di un chiaro disegno evolutivo del nostro servizio sanitario nazionale. Rimane la sensazione che la sanità continui a rimanere fuori dalle priorità dei governi che, intanto, si succedono alla guida del Paese.

Questa percezione assume concretezza con la conferma del finanziamento già previsto per il Servizio sanitario nazionale: una scelta che non dà seguito alle promesse elettorali di un rifinanziamento della sanità pubblica e non determina alcuna soluzione di continuità con il passato.

Il segnale che la sanità non sia una priorità è evidente, oltretutto considerando che quanto descritto si inserisce in una manovra economica che dichiaratamente vuole avere natura espansiva.

Se ne può solo desumere, e non è in effetti una novità, che il settore sanitario non sia considerato un enzima di sviluppo, quand’anche non sia addirittura considerato un mero costo e, da taluni, un caso di uso inefficiente delle risorse.

Il tema dello sviluppo del Servizio sanitario nazionale corre in parallelo con quello del diritto alla salute: la commistione è certamente condivisibile, ma pensare che la questione della sanità sia solo una questione di diritti di cittadinanza è del tutto miope; la sanità è (fra l’altro) un ganglio fondamentale della economia del Paese: la “filiera della salute” rappresenta il 10,7% del Prodotto interno lordo (Pil) ed il 10% dell’occupazione nazionale, confermandosi essere saldamente la terza industria del Paese, seconda solo a quella alimentare ed edile.

Continuare a pensare che la politica sanitaria si esaurisca con la sola “gamba” delle politiche assistenziali, dimenticando quella delle politiche industriali, rappresenta quindi un misunderstanding, su quello che è il perimetro delle politiche sanitarie.

Sul versante della finanza pubblica, il mancato (ri)-finanziamento del Servizio sanitario nazionale è un dato oggettivo, reso evidente dal fatto che la quota pubblica di tutela in Italia, a partire dal 2009, si è allontanata da quella media dei Paesi dell’EU occidentale e centrale più la Grecia, e tenda piuttosto ad allinearsi a quello dei Paesi EU orientale.

L’Italia ha ormai una quota di copertura pubblica superiore di un solo punto percentuale a quella media dei Paesi EU orientale e inferiore di oltre 6 a quella dei Paesi EU occidentale. (figura 1)

 

Senza pretesa di esaustività, le ragioni che, per lo più implicitamente, possono spiegare questo ripiegamento dell’intervento pubblico in sanità sono due, una declinabile “in negativo” e una “in positivo”: gli “sprechi” e “l’ottima salute” degli italiani.

Per alcuni, infatti, il (ri)-finanziamento della sanità si ottiene non aumentando le risorse, ma riducendo gli “sprechi” e, quindi, liberando risorse.

A ben vedere, le evidenze sugli “sprechi” in sanità sono, però, davvero “fragili”.

I “fatti”, al contrario, dicono che gli sprechi, pur essendoci, non rappresentano quantitativamente una fonte credibile di (ri)-finanziamento.

A supporto citiamo:

  • la spesa italiana è ormai arrivata ad essere inferiore a quella dei Paesi dell’EU occidentale del 31,3% (il gap è raddoppiato rispetto al 2000 e sarebbe maggiore se non ci fossero state la crisi della Grecia e la Brexit), tenendo altresì conto che il gap è ridotto dalla crescita della spesa privata, perché per la spesa pubblica è addirittura del 36,8%; ed anche usando il valore in parità di potere di acquisto (scelta, peraltro, discutibile), si conferma che il gap sfiora il 25,0%;
  • non solo i livelli di spesa italiani sono storicamente inferiori a quelli degli altri Paesi EU, ma anche i tassi di crescita sono molto più contenuti;
  • la variabilità della pratica clinica, come anche il fenomeno della medicina difensiva, sono problemi del tutto generali e senza confini nazionali, e prove che in Italia siano maggiori che altrove non ce ne sono, a conoscenza di chi scrive;
  • anche per quanto concerne la corruzione in sanità, dati che dimostrino che sia percentualmente maggiore che negli altri settori non ce ne sono, a conoscenza di chi scrive;
  • le Regioni ritenute generalmente più inefficienti, in ogni caso, sono quelle che spendono meno. (figura 2)

In definitiva, un ulteriore misunderstanding risiede nel fatto che l’esistenza di “sprechi” non significa automaticamente che essi siano eliminabili nel breve periodo, e tanto meno che ci sia la possibilità di liberare risorse significative.

La sanità è la terza industria del Paese dopo quella alimentare ed edile; la “filiera della salute” rappresenta infatti il 10,7% del Pil e il 10% dell’occupazione nazionale

Il secondo elemento di discussione (“in positivo”) è l’ottima performance della sanità italiana, in termini di esiti aggregati di salute; il ragionamento, può essere esemplificato con la domanda retorica: “perché spendere di più se gli esiti sono ottimi”?

In effetti, nel 2016 l’aspettativa di vita in Italia è seconda solo alla Spagna (e con ben 8 regioni che vanno meglio anche del Paese “leader”); per quella a 65 anni l’Italia è dietro solo a Francia e Spagna; per quella senza disabilità è seconda solo alla Svezia; in pratica un italiano può sperare di vivere in assenza di malattie invalidanti sino a 58,8 anni, con un incremento di 1 anno realizzatosi negli ultimi dieci anni; la speranza di vita senza limitazioni nelle attività quotidiane, a 65 anni, assume un valore in Italia pari a 9,8 anni  ed è in aumento rispetto al 2010 di quasi un anno, tra l’altro, dimostrando che è in atto un miglioramento generale dei livelli di salute e dell’autosufficienza. I tassi di cronicità over 65 diminuiscono significativamente, passando dal 45,6% nel 2013 al 44,2% nel 2016.

Per i tumori, l’Italia ha una mortalità standardizzata inferiore alla media dei Paesi EU; come anche inferiori risultano essere i tassi di mortalità evitabile: 7,7 decessi in meno ogni 100 mila abitanti rispetto all’EU-ante 1995 e 107,3 in meno rispetto a EU-post 1995.

Anche l’efficacia e l’efficienza ospedaliera sono molto alte: l’OECD, nell’ultimo Italy Health Profile riconosce, ad esempio, che abbiamo la miglior performance fra i Paesi considerati, in termini di mortalità ospedaliera in caso di infarto; senza contare che abbiamo i tassi di ospedalizzazione minori di Europa; viene promossa dall’OECD anche la nostra primary care, malgrado, nel dibattito interno, sia a volte messa sul banco degli imputati.

Persino le prospettive non sembrano affatto negative; malgrado le profezie di una ineluttabile insostenibilità del sistema sanitario derivante dall’invecchiamento, i “fatti” raccontano che non solo si allunga la vita, ma si allunga anche quella senza disabilità; non aumenta (se non addirittura diminuisce) il tasso di cronicità; si alza l’età media degli eventi acuti ricoverati in ospedale, e, corrispondentemente, si assiste ad una riduzione dei ricoveri anche nelle fasce di età più avanzata.

Ma l’efficacia non “promuove” in automatico un servizio sanitario universalistico.

Il Servizio sanitario italiano, ispirato all’universalismo della tutela pubblica ha, infatti, la sua ragion d’essere proprio nell’obiettivo di garantire l’equità.

Da questo punto di vista, dobbiamo purtroppo confermare che in Italia il primo, e purtroppo persistente e inossidabile, motivo di iniquità, rimane il divario tra settentrione e meridione: l’incidenza di famiglie impoverite per spesa sanitaria sostenuta privatamente si moltiplica per 8 fra le regioni con valori estremi; e anche assumendo un riferimento (soglia di povertà) regionale, quindi relativa, il differenziale rimane quasi di 3 volte.

Se aggiungiamo le “nuove” rinunce (famiglie che dichiarano di aver ridotto la spesa sanitaria e che in effetti la annullano), i nuclei che registrano un disagio per effetto delle spese sanitarie, nelle diverse Regioni, passano da poco più del 2,0% a oltre il 12%. (figura 3)

Appare, quindi, un misunderstanding quello per cui, a fronte di un buon esito in termini di efficacia (esiti) e di efficienza, non c’è motivo (almeno urgente) di intervento: il tema è che abbiamo ancora un deficit di equità intra e infra regionale, che 40 anni di Servizio sanitario nazionale non sono riusciti a scalfire.

I fenomeni di iniquità descritti derivano da un continuo incremento delle famiglie che sostengono spese sanitarie privatamente, il cui numero è cresciuto di 2 punti percentuali nell’ultimo anno, raggiungendo così il 79%.

Si aggiunga che, malgrado la promessa di una protezione universale e globale, i cittadini italiani contribuiscono privatamente alla spesa sanitaria in media quanto quelli degli altri Paesi EU occidentale.

Il numero delle famiglie che sostengono spese sanitarie privatamente, solo nell’ultimo anno, è cresciuto di due punti arrivando al 79%

Questa ultima osservazione evidenzia un altro misunderstanding: lo sviluppo del secondo pilastro di welfare in sanità è, per alcuni, elemento di rottura della primazia del Servizio sanitario nazionale e, per altri, una ineluttabile necessità per ragioni di sostenibilità. Ma entrambe le affermazioni non trovano riscontro: la prima perché la spesa privata ha superato il 25%, e nel tempo cresce per compensare la scarsa crescita di quella pubblica; a riprova di ciò, cresce più rapidamente della crescita del Pil pro-capite e quindi della capacity to pay; la seconda perché la disponibilità dei cittadini a spendere per la salute è sostanzialmente data, ed è quella espressa nei consumi che osserviamo: privatamente si integra l’offerta pubblica e le sue eventuali carenze.

Concludendo, la complessità della filiera della sanità e la rapidità dei cambiamenti in corso richiedono capacità di analisi e più raffinati strumenti di supporto alla programmazione di medio-lungo periodo; tali strumenti devono permettere di superare la logica dei silos, esistenti sia all’interno del settore sanitario, sia, più in generale, fra politiche sanitarie, industriali, dell’educazione etc.

Le politiche di “efficientamento” del sistema hanno raggiunto ormai l’obiettivo, e hanno probabilmente esaurito gran parte della loro importanza: va ora lasciato spazio alle reali necessità di ammodernamento del settore, coniugando efficienza, equità e sussidiarietà.

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