Welfare, i numeri non mentono

Assimilare la spesa per prestazioni previdenziali e assistenziali genera spesso equivoci. Fare chiarezza sui numeri è il primo passo per tendere verso la sostenibilità del sistema

Il tema della spesa per il welfare nazionale ricorre da tempo nei dibattiti tanto dell’opinione pubblica quanto di quella politica che, spesso prodiga nell’elargire promesse attraenti per gli elettori, dimostra talvolta solo una capacità contenuta nel realizzare interventi davvero funzionali al sistema. Un’errata comunicazione dei numeri sulla spesa per protezione sociale restituisce peraltro una percezione di frequente distorta o imprecisa sul tema, perfino nelle statistiche europee: a passare è infatti il messaggio secondo cui sarebbe la spesa per pensioni a gravare sul bilancio del welfare e, di riflesso, sul bilancio pubblico.

A ben guardare i numeri però, come evidenziato dal Sesto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, entrando nel dettaglio delle spese per le prestazioni sociali (pensioni, assistenza e sanità), si nota come la spesa pensionistica sia in realtà in linea con la media europea.

I numeri della previdenza pubblica

Dall’analisi dei dati emerge che la spesa pensionistica relativa a tutte le gestioni ha raggiunto, al netto della quota GIAS (Gestione degli Interventi Assistenziali), i 220,84 miliardi di euro nel 2017 (+2,34 miliardi sul 2016), pari al 12,87% del PIL. Se da tale importo scorporiamo ogni forma di assistenza (GIAS per dipendenti pubblici e maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo per il settore privato), di fatto erogati in base al reddito e classificabili come uscite per sostegno alla famiglia e all’esclusione sociale, si arriva al valore di 201,56 miliardi, vale a dire all’11,74%, un valore assolutamente in linea con la media Eurostat. A fronte quindi di una spesa per pensioni tutto sommato sotto controllo (in media d’anno +0,88% dal 2013), quella assistenziale cresce anno dopo anno al ritmo del 5%.

In secondo luogo, grazie al progressivo decadimento delle pensioni con decorrenza più che trentennale, il numero dei pensionati prosegue verso una progressiva riduzione: 16.041.852 unità nel 2017, uno dei valori più bassi degli ultimi 25 anni. Anche grazie all’aumento del numero degli occupati, il rapporto attivi/pensionati – che per la sostenibilità di medio/lungo periodo del sistema dovrebbe tendere a 1,5 – nel 2017 tocca quota 1,435 dato migliore dal 1997. Al contempo cresce il numero di prestazioni in pagamento: +28.682 sul 2016. Peggiora così il rapporto tra prestazioni in pagamento e numero di pensionati arrivando a 1,433, cifra che aumenta a 2,630 prestazioni per abitante considerando il totale della popolazione. Tale variazione è imputabile prevalentemente all’aumento di prestazioni assistenziali, distanziando di fatto l’Italia da quel percorso virtuoso di contenimento della spesa per assistenza, che sarebbe essenziale.

A fronte di una spesa per pensioni tutto sommato sotto controllo, quella assistenziale cresce anno dopo anno al ritmo del 5%. Nel 2017 il numero delle pensioni “assistite” è pari a 8.023.935

Separare la previdenza dall’assistenza

8.023.935. A tanto ammonta, per il 2017, il numero delle “pensioni assistite”. L’insieme delle prestazioni assistenziali (indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali, prestazioni per invalidi civili, pensioni di guerra) ha toccato quota 4.082.876, con un costo di 22,022 miliardi nel 2017; sommando poi integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali, al lordo di qualche duplicazione, si giunge al dato iniziale (8.023.935). Se le prestazioni pensionistiche sono finanziate dai contributi, quelle assistenziali – che pesano invece sulla fiscalità generale – non sono state interessate né da una previsione di razionalizzazione né da controlli efficaci. Una miopia che rischia di danneggiare le finanze pubbliche e alimenta inefficienza organizzativa. Tanto che sarebbe il caso di riprendere l’idea di istituire il “casellario dell’assistenza” sulla scia di quanto già fatto per pensioni e pensionati, mitigando i rischi – estendibili nel prossimo futuro al reddito di cittadinanza – di distribuire risorse a chi non le merita (i furbetti italiani nonché evasori di professione) e sottrarle a chi ne ha diritto e bisogno.

Oltre la metà dei pensionati è dunque totalmente o parzialmente assistita dallo Stato, un dato che preoccupa soprattutto se si guarda il finanziamento delle prestazioni. Nel complesso, per il 2017, la spesa per il welfare (pensioni, sanità, assistenza) è stata di 453,5 miliardi, il 54% della spesa pubblica totale; per finanziare questa enorme spesa (tra le più elevate in Europa) occorrono tutti i contributi, tutte le imposte dirette e una parte delle indirette. Ma chi paga? Per rispondere al quesito vengono in soccorso le dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef: la metà degli italiani dichiara reddito zero o inferiore a 7.500 euro lordi l’anno; il 45% di tutti i contribuenti (sono circa 40 milioni) versa solo il 2,8% dell’Irpef mentre il 57% dell’Irpef è a carico del 12% dei contribuenti tra i quali l’1,10%, versa il 18,86% dell’Irpef. Dati fiscali e assistenziali non credibili per un Paese del G7 come il nostro.

Un’occasione persa

La notizia dell’ingresso dell’Italia in recessione tecnica, accompagnata dal generalizzato rallentamento dell’economia europea, costringe a guardare con occhio ancor più attento le misure della Legge di bilancio 2019 e quelle del decreto sul reddito di cittadinanza, che accresceranno il numero di pensionati e la spesa assistenziale (quest’ultima per un valore di 8 miliardi, anche per il reddito di cittadinanza). Si prevede infatti un incremento di pensionati di almeno 300 mila unità soltanto per il 2019, senza alcun elemento equitativo nel calcolo della pensione (per un approfondimento si rimanda all’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “quota 100 e il decreto attuativo sulle pensioni”). Oltre a non prevedere alcun tipo di modernizzazione nei controlli per l’accesso al Reddito di cittadinanza (i 780 euro mensili si otterranno in base alla dichiarazione Isee che, secondo recenti dati della Guardia di Finanza, sono false in 6 casi su 10), peggioreranno i conti Inps poiché si avranno 300 mila unità non più versanti ma 300 mila riceventi in più, intaccando al contempo il miglioramento del rapporto attivi/pensionati.

A fronte dunque di una spesa assistenziale in ulteriore crescita e in assenza di incentivi a lavoro e produttività, si aggiunge una misura sperimentale che non elimina le rigidità introdotte dalla riforma Fornero. In definitiva, un’occasione persa per mettere mano dove c’è più bisogno, per rilanciare l’economia del Paese gravata dall’enorme debito pubblico, per di più in un momento in cui la congiuntura economica richiederebbe interventi virtuosi e non misure di breve termine.

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