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Non chiamatela fuga dei cervelli

Come rondini, i giovani italiani migrano alla ricerca di un presente possibile, di opportunità di lavoro migliori e stimolanti, di città più vivibili. Un trend da invertire, pena la desertificazione culturale del Paese

Vivere in un Paese dove funziona tutto. Dove le persone stanno bene, lo Stato fa la sua parte, il privato è competitivo. Non è forse questo il “sogno proibito” di noi italiani? Noi, tutti i giorni alle prese con inefficienze, iper-burocrazia, opportunità scarse e dispari, e tasse, tante tasse?

Sarebbe rincuorante considerare retorica la mia domanda. Invece, è ciò che mi domando quando osservo i dati sulla diaspora dei laureati italiani. Parliamo di un milione di giovani nell’ultimo decennio, circa 25 mila nel solo 2021, ultimo anno censito dall’Istat.

Mi addolora assistere a questo abbandono della terra d’origine, che per l’Italia significa una colossale perdita in termini di investimenti e di futuro.

Esportiamo non solo beni e servizi, esportiamo il nostro capitale migliore, le persone, senza effetti compensativi. Perché i flussi in entrata non si avvicinano minimamente all’ordine di grandezza di questa emorragia. Il Mezzogiorno è ancora una volta l’area territoriale che soffre di più, perché i ragazzi e le ragazze del Meridione si spostano in longitudine e vanno in parte a sostenere i numeri del Nord Italia, appianando almeno il saldo interno.

Ma senza grandi distinzioni, la verità è che a partire sono le persone con titolo di studio migliore: l’8% dei laureati. E la voglia di andare altrove emerge a un’età sempre più giovane. Come se i talenti, non appena si riscoprono tali, comprendano che è un’altra la possibilità di avere successo nella vita e di stare bene, e partono, partono ancor prima di laurearsi.

Partono e raramente ritornano. Quindi, per tornare alle cause, gli istituti che osservano il fenomeno spiegano che la questione retributiva primeggia su tutte. A un anno dalla laurea, un occupato in Italia guadagna in media 1.384 euro, un occupato all’estero 1.963 euro mensili netti. La differenza è quasi del 42%. Poi, più passa il tempo, più il divario aumenta: cinque anni dopo la laurea, si arriva a oltre il 47%.

Ma non è solo una faccenda di bassi salari. È importante la stessa possibilità di avanzare, le prospettive di carriera che portano con sé il riconoscimento economico. Terza ragione, la stabilizzazione contrattuale, se è vero che all’estero il cosiddetto lavoro autonomo, che spesso è foriero di forme atipiche di contratto, risulta meno utilizzato del tempo indeterminato. Quest’ultimo costituisce anche una garanzia rispetto a una serie di tutele – e arrivo alla quarta ragione – tra cui spicca il welfare sanitario, assicurativo e previdenziale.

Dalle nostre indagini, osserviamo che il welfare contrattuale costituisce uno degli elementi di maggior valore per i manager.

Al quinto posto, annoveriamo l’inserimento in ambienti stimolanti, versatili, più internazionali e, infine, una qualità della vita che è corollario di città più sostenibili e accessibili. In una parola, più facili.

Il tema della conciliazione tra vita e lavoro sta diventando una variabile anche per la mobilità del lavoratore e sarebbe riduttivo spiegarlo in termini di smart working. Il tempo e lo spazio sono sempre più dimensioni su cui costruiamo il benessere e i giovani, persino giovanissimi, sembrano avere a cuore il concetto.

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