Il fascino della virtù

Una svolta meritocratica per agganciare davvero la ripresa, valorizzando competenze e talenti. A partire dalla grande occasione del Pnrr

Potrebbe sembrare eccessivo affermare che il merito sia il fattore strategico intangibile più importante per assicurarsi la ripresa post-Covid e – ancor più – la rigenerazione dell’economia italiana nel medio periodo.

Eppure, a ben vedere, non lo è affatto.

Il buon esito del Pnrr, e delle riforme ad esso strettamente correlate, dipende in gran parte da quella “infrastruttura” necessaria allo sviluppo che va sotto il nome di capitale umano. Senza un ecosistema equo e trasparente, basato sulla valorizzazione delle competenze e sul riconoscimento dei meriti nel settore pubblico come nel privato, sarà arduo invertire la rotta del lento declino imboccata dall’Italia da almeno due decenni, per di più accelerato dall’economia della conoscenza.

Sfugge ai più che crescita e merito sono due fattori concatenati. Come ricorda Carlo Cottarelli nel suo ultimo libro, All’inferno e ritorno (Feltrinelli, 2021), se l’economia è in buona salute, l’ascensore sociale si muove di più. Allo stesso tempo, se un paese crea le condizioni affinché tutti, indipendentemente dalle condizioni di nascita, possano accedere alle migliori opportunità possibili, il suo sviluppo sarà più vivace, oltre che più equo. Un sistema meritocratico equilibrato risponde, dunque, sia a un criterio di efficienza economica sia a un’esigenza di giustizia sociale, che potremmo fondere nel concetto di sviluppo sostenibile.

Sono tanti gli esempi che si possono portare, uno su tutti, quello della Corea del Sud, che negli anni cinquanta era una nazione povera e arretrata e oggi, con una popolazione inferiore alla nostra di dieci milioni di abitanti, ci ha superato nella classifica mondiale del Pil. L’Italia, invece, ha progressivamente perso quella spinta progettuale che ha caratterizzato il miracolo economico del dopoguerra e non ha saputo utilizzare l’entrata nell’euro né per rafforzare la sua struttura economica né per affrontare quelle riforme strutturali necessarie al buongoverno e a competere su scala internazionale.

I dati parlano chiaro.

Da una parte, il Pil è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 20 anni, riflettendosi in un reddito pro capite che si attesta sugli stessi valori del 1998, rispetto a un aumento medio europeo del 25% (pre-Covid). Dall’altra, recenti analisi di enti internazionali, come Ocse e World bank, attestano che la mobilità intergenerazionale relativa nel nostro Paese – ovvero le condizioni economiche dei figli rispetto al posizionamento dei genitori – è la più bassa d’Europa e, certamente, non tra le migliori a livello globale.

Secondo Ocse e World bank, in Italia la mobilità intergenerazionale relativa – ovvero le condizioni economiche dei figli rispetto al posizionamento dei genitori – è la più bassa d’Europa

Analisi che non fanno che confermare quanto rilevato dal “meritometro”, indicatore scientifico ideato dal Forum della meritocrazia in partnership con l’università Cattolica. Sin dalla prima rilevazione, effettuata nel 2015, l’Italia ha registrato le peggiori performance sui sette pilastri del merito, riconosciuti a livello internazionale come fattori cardine della competitività: qualità del sistema educativo, attrattività dei talenti, libertà (di fare impresa), regole, trasparenza, pari opportunità, mobilità sociale. Nel 2020, a fronte di un’Europa in cui la meritocrazia aumenta, con 7 Paesi su 12 che incassano variazioni positive del punteggio, l’Italia rimane bloccata all’ultimo posto, con più di 10 punti di distacco dalla Spagna, penultima in classica, e oltre 43 dalla prima, la Finlandia.

Ecco perché una svolta meritocratica è improcrastinabile.

Come ho avuto modo di sottolineare nel libro La cruna e il cammello. L’Italia alla prova del Recovery Plan, di Massimiliano Cannata, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Alessio Tola (Tab Edizioni, 2021), per l’Italia, significa fare un salto evolutivo rispetto alla cultura familistica, corporativistica e patriarcale che ne frena l’innovazione. Se nel settore privato, significa integrare nelle strategie aziendali i criteri Esg di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (ovvero investire sulla qualità del capitale umano e innovare i modelli organizzativi), nel pubblico comporta la necessità di introdurre criteri di misurazione e valutazione, legati a obiettivi di risultato nella Pa, come nella scuola. Significa assicurare una giustizia civile efficace e un sistema fiscale che riequilibri le differenze sociali, acuite dalla crisi innescata dalla pandemia. Si tratta, in ultima istanza, di una svolta culturale e di governance, all’insegna del merito e della responsabilità a tutto campo.

Non possiamo negare che il Governo Draghi ci stia provando. Le tre tipologie di riforme che accompagnano il Pnrr – quelle orizzontali, relative alla giustizia e alla Pa; quelle abilitanti, che riguardano la semplificazione e razionalizzazione della legislazione e la promozione della concorrenza; quelle di accompagnamento, tra le quali spicca la riforma fiscale – vanno in tale direzione. Come anche le priorità trasversali, che toccano gli aspetti critici delle pari opportunità intergenerazionali, di genere e territoriali.

Del resto, non potrebbe essere altrimenti, visto che si tratta di richieste espressamente dichiarate dall’Europa quali condizioni necessarie per avere diritto a ricevere le risorse previste dal Next generation Ue.

Ma quante volte abbiamo assistito, inermi, all’approvazione di leggi che sulla carta promettevano innovazioni significative, mai tradotte nella pratica? Basti ricordare la riforma della Pa del 2009, improntata a una gestione orientata ai risultati e all’introduzione di criteri di premialità del personale dirigenziale. O la riforma della “Buona scuola” del 2015, che riconosceva ai dirigenti scolastici il potere di assegnare un bonus premiale ai docenti che si erano dimostrati durante l’anno più meritevoli, sulla base di criteri definiti dal comitato di valutazione dei docenti. In entrambi i casi, tutto è andato in fumo a causa dell’ostilità di una parte dello stesso personale e della strenua opposizione dei sindacati di riferimento. Eh sì, perché non va dimenticato che il merito è scomodo. Non basta “timbrare il cartellino” fisico o virtuale che sia, ma richiede competenze, impegno, responsabilizzazione e volontà di essere valutati. Certamente, la sua applicazione esige trasparenza, equità e solidarietà, in modo da innescare un circolo virtuoso di comportamenti teso a migliorare la qualità complessiva del lavoro. Quindi deve essere ispirato al principio dell’inclusione, ma deve poter distinguere e premiare l’eccellenza. Tutto il resto sono solo strumentalizzazioni per difendere privilegi acquisiti e impedire alla talentuosità di emergere.

Il merito è scomodo. Richiede competenze, impegno, responsabilizzazione e volontà di essere valutati

Se questo è successo in passato, dobbiamo essere consapevoli del fatto che oggi non è più accettabile. E non è più sostenibile né sul piano economico né sul piano sociale. Quella parte della politica che si sta seriamente impegnando per una trasformazione storica del Paese ha bisogno del sostegno fattivo di un’opinione pubblica compatta e determinata. Per questo, è così importante che la società civile, le associazioni e le realtà rappresentative come Federmanager facciano sentire la loro voce e vigilino affinché l’Italia possa mostrare a se stessa e al mondo quanto potenziale ha da esprimere.

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