Pensiero condiviso

Cresce la sintonia tra le due sponde dell’Atlantico sul nuovo corso della formazione manageriale di eccellenza. L’analisi di Federico Mioni, direttore della nostra Academy

Una formazione manageriale più ampia, più aperta agli elementi critici, e più condivisa con gli europei: questa è forse la sintesi di un panorama di proposte che, negli Stati Uniti, è notoriamente ricco e articolato. La svolta si coglie rispetto a un quadro che era di benchmark assoluto, con le grandi business school americane che offrivano programmi di eccellenza, ma che avevano due potenziali vulnerabilità: l’approccio molto americanocentrico (con qualche chiave di lettura che andava quantomeno declinata sul contesto del nostro Paese) e un’omogeneità di contenuti e strumenti che poteva dare l’idea di una formazione manageriale come una sorta di Bibbia tendenzialmente uniforme e invariante. Del resto, quando con la crisi del 2008-2009 si cominciò a porre il tema di nuovi approcci e soluzioni per reagire, varie voci fecero notare che proprio quella sorta di pensiero unico diffuso nelle business school di quasi tutto il mondo era un ostacolo all’individuazione di nuove vie.

Oggi la percezione è cambiata, e lo si vede da tre punti di vista. Sul fronte dei contenuti, al quadro delle discipline tradizionali come marketing e finance, operations e accounting, hr e leadership, da almeno un paio d’anni (e non in coincidenza col Covid) si sono aggiunti, in posizione spesso prevalente, corsi sulla digitalizzazione e le varie implicazioni dell’Ai (Artificial intelligence), come pure sulla sostenibilità e l’economia circolare. Una varietà di temi molto maggiore che è rafforzata dall’aumento di proposte su un terzo versante, quello dell’internazionalizzazione in tutti i suoi aspetti, da quelli normativi a quelli fiscali, da quelli finanziari alle discipline contrattuali. Come si diceva, è un trend antecedente e dunque autonomo rispetto all’esplodere del Covid, che rivela una maggior consapevolezza dell’insieme di problemi che un’azienda oggi deve affrontare.

Al quadro delle discipline tradizionali si sono aggiunti, in posizione spesso prevalente, corsi su digitalizzazione, intelligenza artificiale, economia circolare e sostenibilità

Il secondo mutamento è registrabile soprattutto in merito a un concetto classico della formazione manageriale, quello della leadership. Anche qui, se si leggono gli interventi più recenti di grandi autori e li si confronta coi testi “classici” dei medesimi, si nota una rilettura dei temi tradizionali (delega e motivazione, empowerment e team building…) sotto una luce che rivela la drammaticità del nuovo contesto. Ciò avviene a livello di argomenti macro, ripensati in una modalità che potremmo riassumere attorno all’ormai notissimo acronimo Vuca, nel senso di scenari volatili, incerti, complessi e ambigui, con la variante Vucad che aggiunge la pervasività del digitale in ogni settore industriale e in molti dei servizi. Avviene altresì a livello di indicazioni per il singolo manager, con temi come la resilienza, o l’antifragilità di fronte ai fenomeni “Cigno nero” o “Cigno verde” (del primo si sa già tutto, mentre col secondo di intende la situazione grave che viene a determinarsi quando un’azienda non si prepara per tempo agli sconvolgimenti già oggi indotti dai cambiamenti climatici).

Allo stesso tempo, si registra un gran numero di corsi o webinar dedicati al diversity & inclusion o alle modalità di lavoro agile (su cui segnaliamo due percorsi del sistema Federmanager fruibili grazie a Fondirigenti), che non costituiscono un semplice ampliamento tematico come indicato più sopra, ma anche un “approfondimento” operato nel cuore delle criticità quotidiane che un manager oggi deve affrontare. Dunque una formazione manageriale più attenta alle persone, che mette l’empatia e l’intelligenza emotiva come una sorta di precondizione per una leadership all’altezza delle sfide odierne: per questo, autori classici come Daniel Goleman o Joshua Freedman, o maestri di leadership come John Kotter o John Maxwell, vengono riletti con una forte attenzione alla crisi delle persone, e anche per questo, dopo due decenni di visioni di leadership muscolare e aggressiva, si parla addirittura di “leadership gentile”.

Dopo due decenni di visione muscolare e aggressiva, adesso si parla perfino di “leadership gentile”

Quest’ultimo tratto non era una sorpresa in un contesto europeo, soprattutto mediterraneo, ma era quasi impensabile in una cultura manageriale nordamericana che, fino a pochissimi anni fa, proponeva un’idea di manager come guerriero o uomo d’acciaio, una sorta di samurai del management o un giocatore di football americano, descritto nel bellissimo monologo di Al Pacino in “Ogni maledetta domenica”. Quel monologo è ancora valido ma va reinterpretato, perché la “meta” non è più il profitto in quanto tale ma una visione che potremmo definire people-profit-planet, una visione di benessere e responsabilità ben più ampia e aperta alle persone e alla dimensione sociale.

I riflessi di questa svolta si colgono nei programmi di Harvard e Wharton, di Kellogg o della Stern school of business della New York university, delle eccellenze californiane Stanford e Berkeley come della Columbia university, che ha lanciato un anno fa un ampio e qualificato programma di leadership che denota la svolta di cui dicevamo. Anche per questo, e per un’apertura a temi più “europei”, possiamo dire che la formazione manageriale di eccellenza oggi è basata su uno “shared thinking” con l’Europa, che si esprime in un mindset più sintonico fra le due sponde dell’Atlantico, e non solo in un forte interesse per il Next generation Eu e in un confronto fra agenda Biden e agenda Von der Leyen.

A tale quadro, peraltro, intende dare un contributo il Transatlantic investment committee, costituito da Federmanager, American Chamber of Commerce, Centro Studi Americani e l’associazione Amerigo, per fare da motore dell’iniziativa: da qui nasceranno a breve proposte che attengono alle competenze per lavorare meglio in e con “l’America ritrovata” di Joe Biden, sia a livello di normative e condizioni finanziarie, sia a livello di mindset necessario a capire un mondo di business così dinamico ma anche, ultimamente, più pronto a interrogarsi sulla caratteristiche e le inevitabili fragilità che ogni persona si porta dietro. Del resto, se gli Stati Uniti sono sempre stati il centro dell’innovazione, una nuova formazione manageriale non è un urgente capitolo che la cultura d’impresa deve formulare in termini innovativi? Noi di Federmanager siamo a disposizione.

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