Startup, le regole del gioco sono cambiate

Negli ultimi anni alla parola innovazione in azienda viene spesso affiancata la parola startup. Ma, quando si parla di startup si possono avere diverse prospettive per raccontarla, a seconda di quanto sia approfondita la loro conoscenza, o per meglio dire la consapevolezza dell’ecosistema economico/finanziario nelle quali esse nascono, crescono, si sviluppano e talvolta muoiono.

In Italia sono formalmente registrate all’apposito registro delle Camere di Commercio italiane circa 7.500 giovani imprese innovative ad alto contenuto tecnologico. Di fatto esistono almeno altrettanti progetti di impresa che ancora non sono “legal entity” e quindi non sono ancora ufficialmente riconosciuti. Da questo dinamismo, in Italia negli ultimi 4/5 anni si sono creati dal nulla oltre 35.000 nuovi posti di lavoro, e anche di questo dato si parla poco.

Ma, la vera novità, al di là delle cifre, è che il nostro Paese ha davvero ancora molto da dire, dal punto di vista della capacità di inventare e di innovare, ha ancora molto da insegnare dal punto di vista della passione e dell’energia che i numerosissimi talenti italiani esprimono, quando cercano di costruire un’azienda, nonostante le difficoltà del nostro sistema economico, giuridico e politico, nonostante la nostra burocrazia che, certamente, non sostengono e non stimolano la volontà di creare nuovi business, nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi.

“Fare innovazione” non è solamente un’azione, ma è ancor prima un approccio mentale, un modello culturale che prevede una totale apertura verso l’esterno, che privilegia la capacità di fare lavorare in squadra, di progettare, di sbagliare e di ricominciare, in maniera “agile” e rapida, valorizzando non tanto le hard skill quanto, soprattutto, le soft skill. Mentre le startup sono nella loro essenza frutto di questa cultura, nelle aziende tradizionali, quando si parla di innovazione, si tende ancora ad avere una mentalità più conservativa.

Quindi, il primo passo è necessariamente quello di creare una “cultura dell’Innovazione” che coinvolga e unisca tutti i protagonisti di questo percorso. Questo comporta essere aperti alle idee provenienti dall’esterno, essere veloci, coraggiosi e più fiduciosi.

È necessario snellire i processi, perché l’innovazione non riesce a sopravvivere ai ritmi compassati e appesantiti dai protocolli e dalle codifiche aziendali. Bisogna essere coraggiosi non solo nello sperimentare nuove idee, ma anche nel non aver paura di sbagliare, iniziando ad abbattere i confini, i “silos” interni alle strutture aziendali. Dobbiamo anche imparare ad apprezzare il fallimento come prova della nostra intraprendenza e stimolo alla resilienza.

D’altro canto, come dice bene una ricerca condotta congiuntamente da Assolombarda e Italia Startup, presentata allo Smau alla fine del 2016, la tendenza a puntare sui servizi e sulla produzione di software piuttosto che sull’hardware e sulla produzione industriale, ha generato un divario tra il mondo delle startup e quello dell’industria di prodotto.

Nel nostro Paese abbiamo oggi da una parte un mondo di startup innovative digitali che guardano all’estero come modello di successo, dall’altra, invece, un settore chiuso in se stesso e che sta lentamente soffocando a causa della difficoltà nel creare innovazione di prodotto e di processo al proprio interno.

Per rilanciare l’industria italiana dobbiamo creare dei ponti tra queste due realtà così diverse, dobbiamo fidarci di chi questi percorsi li ha già intrapresi: chiamiamoli “mediatori culturali” se volete. Digitale e industria, insieme, hanno dato luogo al neologismo di “Industria 4.0”, una piattaforma che raggruppa tutti gli stakeholder interessati, le aziende e i loro dipendenti, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, la ricerca universitaria e scientifica, la politica, insieme per sviluppare alleanze in fase precompetitiva, al fine di far evolvere velocemente le capacità imprenditoriali.

In questo tsunami, solamente accennato, è evidente come le capacità manageriali, le competenze, siano, ancora oggi, fondamentali per poter affrontare e gestire con successo questa nuova rivoluzione industriale. Il punto è che anch’esse devono “ibridarsi”, devono mescolarsi con tutto ciò che arriva dalla rete, dal digitale.

Il tema della “formazione moderna”, come io amo definirla, è a monte di qualunque strategia di innovazione. Le nuove regole del gioco di basano sulla capacità e disponibilità a contaminarsi, a condividere, ad integrarsi, ad imparare a conoscere in profondità la “digital economy”, che molto può fare nel portare nuova linfa e maggiore efficacia ed efficienza nella catena del valore delle grandi e, soprattutto, delle Pmi di cui è ricco il nostro Paese.

 *  Amministratore Delegato Industry Innovation, Digital Magics SpA