Se l’ingresso di capitali stranieri fa bene all’impresa

Una conversazione sul capitalismo italiano con Fulvio Coltorti, per anni direttore del centro studi Mediobanca

«Per un’azienda di grandi dimensioni, una partecipazione azionaria straniera fa parte di una dinamica fisiologica. Quando invece scendiamo di dimensione, il problema si presenta eccome». Inizia così la nostra conversazione sul capitalismo italiano, i suoi vacillamenti, le endemiche ritrosie, i taluni benefici, che abbiamo intrattenuto con Fulvio Coltorti, per anni direttore del centro studi Mediobanca ed esperto interprete delle dinamiche industriali italiane.

Professor Coltorti, prima di tutto chiariamo un dubbio: è un male o è un bene che i capitali stranieri entrino nell’azionariato delle nostre medie e piccole imprese?

Ci troviamo di fronte a una duplice possibilità: se l’imprenditore non vuole essere “disturbato” e pretende di continuare a gestire la propria azienda come vuole, allora l’ingresso di altri capitali rischia di essere frustrato sul nascere. Se, invece, una partecipazione azionaria straniera avviene come concessione di licenza o di ampliamento dei mercati potenziali, in quel caso il connubio è sicuramente più positivo. L’azienda originaria diventa una sorta di impresa di progettazione o ricerca, mentre il capitale azionario serve per espandere il proprio raggio d’azione. Se poi rimane il management “storico” ci sono tutti gli ingredienti perché il matrimonio sia ben riuscito.

Ha dei dati che possano testimoniare quali sono le partecipazioni che funzionano meglio?

Mediobanca ha condotto uno studio per misurare gli effetti in termini di efficienza e redditività dell’ingresso di capitali azionari nelle medie imprese. Si vede che questi parametri migliorano quando l’acquisitore estero ha voluto conferire all’azienda originaria, senza cercare di snaturarla, una migliore presenza a livello internazionale. Qualora invece questo non succeda, allora la situazione si ribalta. Un esempio su tutti, Parmalat: è stata acquistata da un’azienda padronale francese, Lactalis, che l’ha privata della rete internazionale e l’ha resa sostanzialmente una filiale, rendendola “schiava” del controllante estero.

Pensa che la presenza straniera nelle aziende nostrane possa essere motivata anche da una carenza di capitale e dalla difficoltà di reperirlo?

Non direi: l’Italia ha una dose di risparmio molto consistente. Le medie imprese sono in genere aziende che hanno una struttura finanziaria leggera. Sul piano internazionale ci sono fondi che vogliono investire nelle aziende più dinamiche, quindi il problema è relativo. L’apporto finanziario estero viene visto con favore solo se si sente il bisogno di espandersi secondo certe linee, quando cioè c’è bisogno di un apporto una tantum in un periodo breve di tempo. Altrimenti tutte le imprese lavorano con l’autofinanziamento. E poi, nel caso, c’è sempre la quotazione in Borsa…

Ecco, da questo punto di vista, l’Italia è in linea con le altre economie occidentali o abbiamo delle peculiarità quando si tratta di quotarsi?

Direi che siamo sostanzialmente in linea con paesi come Spagna o Germania, mentre negli Stati Uniti un imprenditore che fonda un’azienda vuole immediatamente quotarsi perché la borsa è un enorme strumento di espansione, dando accesso a un mercato di dimensioni gigantesche. Per quanto riguarda invece il nostro Paese, dobbiamo dire che, specie all’inizio, una media impresa ha di fronte a sé un mercato di piccole dimensioni, e quindi si tende a restare così come si è, in una dimensione familiare o limitata a una piccola cerchia di investitori. Anche perché a volte non è neanche necessario quotarsi in borsa, basta mettersi nelle mani di manager professionisti, che sappiano guidare l’azienda oltre le logiche “padronali”.

La moderata ripresa nel nostro Paese sta premiando le imprese del quarto capitalismo, che fanno parte di distretti d’eccellenza che hanno sempre fatto bene.

A proposito di management, che cosa ne pensa della vicenda Telecom?

Partiamo da un assunto: Telecom rimane la più importante impresa italiana ed è un caso emblematico di una privatizzazione non riuscita. Si tratta di una grande azienda che ha bisogno di investire per ritornare a essere competitiva, perché finora è stata gestita da una proprietà ristretta che ha sopito qualsiasi possibilità di spesa per il bene dell’azienda in primis e poi dell’intero sistema paese. Vero è che, storicamente, la presenza francese nelle nostre imprese difficilmente si combina con il rafforzamento di queste ultime che, anzi, a volte vengono sfruttate dagli azionisti d’Oltralpe.

Come valuta la presenza cinese in Pirelli? Il bilancio è cresciuto oltre le aspettative…

Devo fare una premessa: ChemChina è diretta espressione dello stato cinese, e questo non mi piace molto.

In Italia abbiamo due stati sovrani presenti con grosse partecipazioni, ovvero la Francia in Edison e, appunto, i cinesi in Pirelli. Pirelli ha una tecnologia riconosciuta a livello mondiale nel campo degli pneumatici, storicamente di fascia alta – come dimostra la presenza in Formula 1.

Tutte le volte in cui ha cercato di andare sui mercati mondiali ha fatto buchi nell’acqua, mentre la focalizzazione sul segmento premium è sicuramente vincente. Da questo punto di vista, quindi, la presenza di capitali cinesi può essere preziosa, perché – almeno per ora – garantisce una robusta forza finanziaria che consente a Pirelli di sviluppare al meglio il suo core business. In questo, assomiglia al modello delle medie imprese: è un vecchio capitalismo che si è evoluto e ha saputo puntare sulle proprie peculiarità.

Ha fatto riferimento al capitalismo italiano che ha in qualche modo deluso: pensa che il rinnovamento della classe politica cui stiamo assistendo vada di pari passo con un rinnovamento della classe dirigente?

Partiamo dalla politica: hanno vinto due partiti antisistema – il Movimento 5 Stelle e la Lega. È un bene che ciò sia successo: l’Italia non cresce, il sistema è inadeguato e andava cambiato. Peggio di così non potevamo andare, quindi qualsiasi cambiamento è bene accetto.

Diverso è il discorso relativo alla classe dirigente. Il cosiddetto “salotto buono” si faceva forte di un mercato protetto in cui oltretutto controllava i media. Oggi invece vediamo che questa moderata ripresa sta premiando le imprese del quarto capitalismo, che non fanno parte di nessun salotto, ma piuttosto di distretti d’eccellenza che hanno sempre fatto bene.

Penso a Lecco, Bergamo, Brescia, il Veneto… Non è che queste medie imprese prenderanno il posto della Fiat, ma sono loro che permettono di avere un saldo positivo della bilancia commerciale.

Il sistema sta andando avanti per selezione darwiniana. Se invece guardiamo ai colossi ex-statali (Eni, Enel, Finmeccanica), qui il problema è riuscire a garantire una governance efficace, in cui vi sia la presenza di manager professionali, non più espressione della politica. Hanno vinto Lega e 5 Stelle, dicevamo, ma la loro sopravvivenza resta legata alla selezione dei manager delle grandi aziende a partecipazione pubblica. Se riusciranno in questo, avranno portato un beneficio a loro stessi e al Paese.

*   giornalista

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