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Quei ragazzi del ’99

Tendere il parallelismo tra le generazioni del ’99 rende eloquente la china un po’ ingloriosa che il nostro Paese ha intrapreso negli ultimi decenni della sua storia. I ragazzi del 1899 non hanno avuto grandi possibilità di scelta. E’ stata loro chiesta la vita per difendere il Paese dall’invasore. Ragazzi semplici, per lo più di provenienza umile e senza scolarizzazione, ma con valori forti e un grande sogno: un futuro migliore che avrebbero dovuto aiutare a costruire. Hanno dimostrato coraggio, si sono battuti per un obiettivo alto: la libertà propria e del proprio Paese.

Animata dallo stesso spirito di speranza e di passione, la generazione del dopoguerra, ricca di grandi personalità, grandi leader, dalle macerie del conflitto ha dato vita a quell’opera di ricostruzione che ha fatto grande questo nostro piccolo Paese e consentito a noi, baby boomers, di vivere anni di pace e di benessere senza precedenti.

Poi ci siamo cullati troppo, abbiamo cominciato a vivere sopra le nostre possibilità, accentuando sprechi e fenomeni di corruzione che hanno innescato una crescita senza controllo del debito pubblico, una sorta di refugium peccatorum che ora costituisce il nostro cruccio principale.

Ed ecco che spuntano i Millennials, i nostri ragazzi del 1999, più coccolati e istruiti, che reclamano risposte rapide alle aspettative che non trovano e, forse, nemmeno cercano con convinzione.

Un nuovo esercito di insoddisfatti, un esercito senza anno di leva, non più obbligatorio. E anziché prendere atto che evidentemente qualcosa non ha funzionato e cercare di attuare le opportune contromisure, più di qualcuno, in modo irresponsabile e pericoloso, ci inzuppa il biscotto e alimenta una contrapposizione generazionale senza precedenti generando un clima di invidia che rischia di trasformarsi in vero e proprio odio sociale. Un bel capolavoro!

La ricetta però è solo una. La nostra è (o dovrebbe essere …) una Repubblica fondata sul lavoro, anche se sembra che ce ne siamo dimenticati, anche se lo dipingiamo come una sorta di cayenne che ciascuno deve scontare per vivere. Il lavoro invece è, come dovrebbe essere, lo strumento più naturale per realizzare le proprie aspirazioni personali e professionali. Rimettiamo il lavoro al centro della nostra discussione. Le imprese che funzionano e sono competitive sono quelle che puntano sulla qualità e sulla valorizzazione delle persone, da cui ne dipende il successo.

Curare i giovani nella fase di acquisizione delle conoscenze è fondamentale, creare un sistema di orientamento che sappia direzionare sulla base delle attitudini personali e delle effettive possibilità di lavoro è importante, così come il saper fare. Non ci possono essere degli steccati tra scuola e lavoro. Il sistema duale è quello che fa la differenza tra noi e la Germania. Basta copiare. La formazione è il punto da cui partire per creare le competenze che servono. Questo è il miglior antidoto per vincere il rischio di essere sostituiti dalle nuove tecnologie.

Solo il lavoro riconosce la dignità della persona. Perciò, rispettando chi è venuto prima di noi e ha lavorato molto per fare grande questo Paese e che ancora svolge un ruolo sociale fondamentale per il welfare familiare, investiamo sul lavoro per i nostri giovani.

Evitiamo di creare i presupposti per trasformare un esercito di insoddisfatti in un esercito di assistiti. Serve un nuovo vero patto generazionale su cui ricostruire una futura prospettiva di crescita e di sviluppo sostenibile e inclusivo.