Le donne e il potere in azienda

Un esercizio di pedagogia, questo editoriale del direttore di Economy, Sergio Luciano. Dedicato alle donne che, nonostante tutto, fanno grande l’impresa

I numeri parlano chiaro, l’Italia è sideralmente lontana dalle parti opportunità tra uomini e donne sui luoghi di lavoro. E questo vale soprattutto – ma non solo – nei ruoli dirigenziali.

Anche gli ambienti presumibilmente più “aperti” sul piano culturale riservano in materia amare sorprese. Un esempio per tutti sia il mondo delle cooperative, dove effettivamente le donne sono numerose quanto gli uomini nel ruoli operativi, vedono calare la loro incidenza tra i quadri e si riducono a una sparuta minoranza nei ranghi dirigenziali.

L’asimmetria purtroppo impera – secondo l’indagine meritoriamente presentata da Federmanager al convegno in Vaticano del 4 maggio scorso – in maniera analoga al Nord come al Centro come al Sud. E si riverbera, naturalmente, nelle retribuzioni, che confermano il pesante “salary-gap” esistente tra uomini e donne a parità di funzioni.

Il percorso di “perequazione indotta” tra generi nei ruoli apicali intrapreso dal legislatore con l’introduzione delle “quote rosa” per i consigli d’amministrazioni delle società quotate in Borsa e delle aziende pubbliche è stato proficuo, ma si è dipanato tra molte polemiche, alimentate insospettabilmente spesso da molte donne, convinte – per carità, con ragione – che qualsiasi forzatura alla meritocrazia rappresenti comunque un modo, magari ispirato dalle migliori intenzioni, per riaffermare, nel contrastarla, una differenza che andrebbe invece semplicemente negata in radice.

Ma se sul piano dei principi la critica è fondata, le quote sono uno strumento di pedagogia sociopolitica indispensabile per disseminare consapevolezze nuove nel sistema.

La scarsa partecipazione delle donne alla fase decisionale dei processi aziendali ed economici italiani è parte rilevante del problema di fondo di cui soffre l’Azienda Italia, cioè la scarsa competitività.

La scarsa partecipazione delle donne alla fase decisionale dei processi aziendali ed economici italiani è parte rilevante del problema di fondo di cui soffre l’Azienda Italia, cioè la scarsa competitività. Un problema che va sanato incidendo anche sul questo divario.

Il “maschilismo reale” che inquina il Paese discrimina la metà delle intelligenze disponibili, e paradossalmente interferisce con effetti distorsivi anche nella selezione pur occasionale che talvolta – nonostante tutto – premia le donne, perché determina spesso che a prevalere tra esse siano quelle che scelgono un approccio di tipo maschile alla carriera ed al lavoro. Insomma, per dirigere, in Italia una donna deve di solito porsi come una donna-uomo.

Tra il “format” edificante che ci viene proposto dal modello nord-europeo, dove la leadership femminile non contrasta né con la vita familiare né con una manifesta adesione alla componente più sana e vitale del modello sociale, estetico, iconico e relazionale storicamente prevalente nel sesso femminile, e il… format-Merkel, deve prevalere quest’ultimo: pochi sorrisi, poca gentilezza, poca gonna e molti pantaloni. Quasi per farsi perdonare di essere donna e per riaffermare che non c’è una strada femminile alla leadership. Insomma: o voce grossa, alla “Full metal jacket”, o non si può comandare. Ma chi l’ha detto?

Sul piano normativo, lo scalino più arduo da superare è e resta, però, quello della gravidanza e del puerperio, quella fase naturalissima nella vita di ogni donna che continua ad essere vissuta dalle aziende come un deterrente rispetto all’opportunità di favorire o anche solo permettere l’escalation professionale delle donne.

Forse in questo senso – lungi dal sottovalutare e magari abolire le quote rosa temendone l’effetto distorsivo sulla meritocrazia – sarebbe necessario introdurre anche delle quote azzurre che obbligassero (ma proprio come obbligo di legge) i padri a condividere almeno in parte la fase successiva al parto, dove nulla e nessuno impone che siano solo le madri a prendersi cura dei figli.

Se ogni dirigente che decide di diventare padre fosse, per questo, obbligato a prendersi un mese di congedo parentale entro i primi tre dalla nascita del figlio sostituendo la moglie in modo da consentirle di rientrare prima al lavoro o affiancandola qualora non lavori, si introdurrebbe probabilmente un fattore di riequilibrio in questa pesante discriminazione. Una quota azzurra che oggi sembra culturalmente lontana anni luce dal dibattito in corso, ma vent’anni fa anche le quote rosa lo sembravano e invece alla fine sono state varate.




*   Direttore di Economy

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