Elezioni USA. Il rebus della politica economica

La prima cosa da mettere a fuoco quando si guarda alla campagna elettorale fra Trump e Clinton sotto la lente della politica economica è che l’economia americana, in 8 anni di presidenza Obama, ha ottenuto risultati eccezionali in termini di nuovi posti di lavoro, crescita del mercato azionario, recupero ed espansione del mercato immobiliare, e addirittura un certo, limitato ma importante, rientro della produzione industriale dalla Cina agli USA.

Sono tutte ragioni per cui Hillary – che necessita del più ampio sostegno possibile di Barack nella corsa alla Casa Bianca – promette la continuazione e l’estensione della politica economica adottata dal Presidente uscente. Fino ad un certo punto, però. E quel punto si chiama Bernie Sanders.

Sanders ha ottenuto un sèguito importante nel popolo democratico americano, anche perché critica i patti di scambi commerciali come il NAFTA, che ha colpito la classe operaia americana a vantaggio dei più benestanti bancari, investitori e multinazionali (posizione simile, tra l’altro, è tenuta anche da Trump). Un uomo che ancora in molti, tra gli elettori democratici, rimpiangono e che, non ha caso, ha tardato a dare il suo endorsement alla rivale alle primarie.

Hillary, dapprima alleata con Obama in sostegno del TPP (Trans Pacific Partnership) e del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), ora che siamo nel vivo della campagna fa una parziale marcia indietro, dichiarando opposizione o almeno riluttanza verso l’approvazione di questi trattati. Perciò, se la strategia di partito le impone di garantire continuità alla politica di Obama, la cruda realtà del dibattito politico, durante le primarie prima e ora nella competizione contro Trump, sembra obbligarla a essere più cauta in merito.

Trump, invece, ha apertamente e fortemente basato la sua campagna sull’opposizione a questi patti, annunciando addirittura l’imposizione di dazi ulteriori contro la Cina (45%) e il Messico (35%), oltre alla cancellazione del NAFTA. Se introdotti, questi dazi potrebbero originare vere guerre commerciali che, secondo le previsioni del Peterson Institute for International Economics, arriverebbero a costare all’economia americana 5 milioni di posti di lavoro e potrebbero portare il Paese in recessione.

Una peculiarità di questa campagna elettorale – una delle tante – è il fatto che il candidato repubblicano, con la sua posizione contro scambi commerciali internazionali e le sue proposte per ridurre le tasse in maniera così drastica da costringere il taglio agli investimenti nelle infrastrutture necessarie, ha finito per non essere appoggiato dai tradizionali sostenitori del suo partito. Il New York Times riferisce che finora nessun CEO delle 100 più grandi società americane ha contributo alla campagna di Trump, mentre 11 hanno versato soldi alla Clinton.

Un sondaggio del Bloomberg Politics svolto in agosto ha rivelato che il 46% delle persone con più di $50.000 investiti nel mercato azionario favorirebbe Hillary, mentre solo il 36% sarebbe dalla parte di Donald. Se questo è il polso degli investitori finanziari, si capisce bene anche perché altri istituti, come il Macroeconmomic Advisors di St. Louis, abbiano previsto che in caso di vittoria di Trump si verificherebbe un calo della borsa di 7 punti percentuali, mentre una vittoria di Clinton porterebbe a una crescita del 4%.

Attualmente le stime per il Pil Usa sono positive e indicano una crescita dell’1,9% per quest’anno e del 2,2% nel 2017, con numeri altamente significativi nel settore di hi-tech manufacturing. Oltre a questo comparto, c’è il nodo infrastrutture: di fronte ai tagli promessi dal concorrente, Hillary promette un investimento importante in strade, ponti, treni, transito interurbano e di metropolitane.

Vale la pena menzionare che le grandi città americane, in particolare, stanno godendo un periodo florido fatto di nuovi investimenti in uffici, residenze, alberghi. È verso le aree urbane che stanno ritornando anche le grandi aziende, consapevoli che è lì che i giovani laureati preferiscono vivere e lavorare. A questo si aggiunga che è in atto un cospicuo movimento di investimenti immobiliari cinesi in tutti gli States, mentre sempre più europei stanno comprando case, specialmente a New York, Chicago, Los Angeles.

E per le aziende italiane in USA? Se guardiamo alle prospettive di export per l’Italia, è sufficiente citare tre cose. Parto da un’esperienza personale. Nel supermercato nel mio quartiere di Chicago – un supermercato che fa parte di una catena nazionale di medio-alto livello – il direttore mi dice che uno dei loro prodotti alimentare più profittevole è la loro “acqua minerale italiana”, venduta con etichetta privata del supermercato, a dimostrazione della fiducia del consumatore americano nei prodotti alimentari italiani.

Secondo. Uno studio dell’Istituto Piepoli che ha di recente interrogato i decision makers statunitensi ammette: “I prodotti italiani più conosciuti sono quelli alimentari, il vino, le calzature, le automobili, l’abbigliamento, gli accessoria moda, l’arredamento, perché rappresentano un’immagine di qualità, design, originalità, alto prezzo, status symbol”.

Infine, terza suggestione. Ecco cosa si legge in un’indagine Investar-Unicredit: “Il 90% degli americani aumenterebbe la percentuale di acquisti di prodotti italiani a fronte di una maggiore affidabilità dei servizi post vendita”. 

Quindi, se nelle previsioni del governo italiano – di cui si è parlato di recente – si annuncia uno stop all’export nel 2017, è bene che si consideri che negli Usa esiste una domanda non adeguatamente intercettata di Made in Italy. E questo è un dato che prescinde da chi l’8 novembre si siederà nello Studio Ovale.

Charles Bernardini, socio, Nixon Peabody LLP