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Quella relazione pericolosa tra impresa e finanza

Il nostro sistema bancario è di nuovo sotto l’occhio del ciclone. L’Europa è tornata alla carica redarguendoci sulla questione dei crediti deteriorati ben sapendo che accelerazioni sul tema sono fuori dalla nostra portata (forse a qualcuno preoccupa un’Italia che comincia a registrare un qualche segno più e a dimostrare la sua capacità competitiva).

Inoltre, la scadenza del mandato del Governatore della Banca d’Italia ha scatenato una diatriba sull’operato dell’organo di vigilanza che rischia di diventare un incidente istituzionale, rispetto al quale, al di là del merito, sembra di essere già in campagna elettorale, viste le vicende di alcune delle nostre banche che hanno lasciato parecchi feriti sul campo.

Un argomento molto serio, quello della stabilità e del funzionamento del nostro sistema bancario, che anziché essere affrontato nei giusti termini rischia di essere utilizzato strumentalmente solo per convincere gli elettori a stare dalla propria parte.

Se questi sono i presagi non c’è da stare tranquilli ed è alto il rischio, anche in questa tornata, di assistere a un confronto sterile per non dire banale, urlato più che argomentato, in cui ci si volta all’indietro cercando di scovare le malefatte per attribuire le responsabilità ad altri e senza alcun costrutto e senza mai porsi il tema del “cosa” fare per migliorare davvero un settore certamente strategico per sostenere l’economia e le famiglie, e che qualche serio problema continua a manifestarlo.

E’ indubbio che la relazione tra banca e impresa nel nostro Paese è del tutto peculiare. Non a caso, accanto agli istituti tradizionali, sono gemmate in questi lunghi anni banche fortemente radicate nel territorio a supporto delle famiglie e dell’economia locale, alcune delle quali assieme al Monte Paschi di Siena, hanno generato i noti problemi in termini di affidabilità e sostenibilità coinvolgendo i risparmiatori spesso inconsapevoli.

Un modello relazionale tra banca e impresa figlio della storia e delle caratteristiche distintive del nostro modello economico e produttivo che si è affermato in Italia dal Dopoguerra e che ha visto fiorire milioni di piccole e soprattutto micro imprese, attraverso le quali si è espressa una elevata vocazione all’autoimprenditorialità presente nel nostro Paese più che in altri. Il nostro modello di capitalismo familiare in cui, normalmente, anche i confini tra la proprietà e l’impresa sono molto labili per non dire confusi.

Un modello ormai segnato dal tempo, in cui il ricorso delle nostre imprese al credito bancario è molto elevato per non dire eccessivo e comunque non confrontabile con alcun altro Paese industrializzato.  Un modello che, con la globalizzazione ma soprattutto con l’avvento dei nuovi modelli di business spinti dalla digital transformation, sembra avere segnato definitivamente il passo.

Il benessere di un Paese è dipendente dalla competitività del suo sistema economico e, per quanto ci riguarda, dal valore delle competenze che esprimiamo e esprimeremo in futuro. Il mondo intorno a noi viaggia a velocità siderale, non possiamo perpetuare con le nostre vecchie e infruttuose politiche degli annunci, i cui risultati sono sempre ben lontani dalle aspettative. Cerchiamo, quindi, di individuare pochi e precisi obiettivi, guardare avanti in modo costruttivo, e di impostare un confronto serio sui temi veri che abbiamo di fronte e su quali idee e programmi si intendono sostenere.

Abbiamo bisogno di imprese aperte più al mercato dei capitali che al prestito bancario e di investitori istituzionali, a partire dai fondi pensione, più vicini all’economia reale che diano fiducia e sostegno alle imprese più innovative che meritano per la loro capacità di competere spinta da un management all’altezza e con prospettive di crescita.

Abbiamo bisogno di imprese più dimensionate, meno famigliari, più trasparenti e con una governance migliore, guidate da un giusto mix di competenze manageriali tra le quali non possono mancare anche quelle finanziarie.

E’ il modo per riavvicinare i cittadini alla politica, per contrastare la deriva dell’antipolitica e del populismo. Una politica utile al Paese, concreta, volta a condividere un progetto vero di rinnovamento strutturale del Paese, di sostegno all’innovazione del suo tessuto produttivo, di formazione delle competenze necessarie, che porta con sé anche un’evoluzione di un rapporto più sano ed equilibrato delle imprese con il mercato dei capitali e con le banche, e probabilmente anche occasioni di impiego più qualificate anche per i nostri giovani. Speriamo di fare breccia e di non rimanere una voce fuori dal coro.